Aldo Ferrario, opere recenti

Marina De Stasio, 1993
Museo Epper, Ascona

Aldo Ferrario scolpisce soprattutto il legno, materia primaria della scultura, da tempi antichissimi materia dei totem, degli idoli, delle prime essenziali manifestazioni plastiche dell’uomo, cariche di misteriosi poteri sacrali, che la materia e la forma gli conferivano.

La scelta di questo materiale arcaico, fortemente espressivo, ricco di colori, chiari e scuri, caldi e spenti, e già di per sé portatore di segni che testimoniano la sua storia e il tempo passato, è molto significativa. Ferrario cerca una forma essenziale, severa e semplice, una figura che sia maestosa e povera, come il tronco dell’albero che un giorno è stato schiantato.

Lo scultore affronta la sua materia con un misto di amore e odio, di tenerezza e brutalità; taglia il tronco in orizzontale con una motosega, l’aggredisce con fitti colpi d’ascia, con un gesto duro, brusco, ma non crudele, quasi un ruvido gesto d’amore. I tagli che feriscono la materia diventano colore e disegno, le loro ombre scure tracciano sulla superficie una trama di segni. La forza del gesto, la freschezza del colpo empirico, casuale, che rivela improvvisamente la possibilità di nuove soluzioni formali, portano alla nascita di una figura drammatica, ma non consunta e macerata, anzi scattante. La superficie resta ruvida, non finita, piena di asperità e imperfezioni; ci sono tracce di segatura, le schegge, ancora sollevate, possono ferire. L’artista non cerca effetti decorativi o leziosaggini, con i suoi tagli non asseconda nodi e venature, non segue l’andamento del legno, anzi volutamente lo contrasta, lo offende; ma lascia poi che il sole, scaldando le superfici attraverso le vetrate dell’atelier, risvegli le patine antiche e diverse delle varie essenze.

La ricerca di Ferrario fin dall’inizio verte sull’uomo e sul suo mondo; non nel senso di un’indagine psicologica o sociale, ma di una constatazione esistenziale, di un interrogarsi sulla presenza così perentoria e al tempo stesso inesplicabile della figura umana nello spazio del mondo.

Solitaria, oppure accostata agli elementi fondamentali del vivere – la casa e l’albero -, la figura ci fronteggia, scabra e severa, come se provenisse da un tempo remoto, da un lungo silenzio.

Tronco e colonna, forma naturale e insieme costruzione – “fusione di slancio naturale istintivo e sforzo di costruzione di sé stesso”, ha scritto Giuseppe Curonici -, la statua lignea è scolpita a grandezza naturale, perché risulti più vera, immagine autentica dell’uomo, portatrice della sua storia, e perché tra l’artista e l’opera s’instauri un rapporto diretto, in una crescita reciproca.

Una forma geometrica, squadrata, estremamente semplificata è la casa, la razionalità dell’architettura concepita e voluta dall’uomo; l’albero stilizzato è una forma simbolica, schematica, ma non fredda e tutt’altro che inanimata. Ferrario racconta di essersi ispirato alla palma scolpita dal Bernini per la Fontana dei fiumi di Piazza Navona a Roma, ma ancor più vicina emozionalmente è la scultura romanica, semplice ed espressiva, potente e popolana.

L’essenzialità di queste sculture non nasconde la ricchezza dei riferimenti culturali, la stratificazione degli interessi dell’artista: i volumi serrati e le tensioni dinamiche della scultura neocubista di Fritz Wotruba; Sironi, nelle cui forme appena sbozzate, costruttive, piene di forza, moderne e atemporali, l’artista ha saputo scoprire e sottolineare il senso plastico e architettonico; la scultura africana, per la solennità sacrale, per il rispetto, la vicinanza alla materia, nonostante la violenza che l’atto stesso di scolpire implica.

Non è meno importante la riflessione su Alberto Giacometti: una statuaria frontale, ma non immobile, intensa ed enigmatica, non può non rimandare al maestro di Stampa; ma si direbbe che Ferrario, che solo recentemente si è avvicinato a Giacometti, l’abbia fatto per subito allontanarsene: le figure appaiono infatti radicate alla terra, a cui sempre più spesso sono unite senza l’intermediazione di una piattaforma, ma la loro base tende a rastremarsi, la forma si protende verso l’alto con una lieve torsione, come se l’energia si volesse sprigionare dalla materia, con il gesto di ardua liberazione dei Prigioni michelangioleschi.

Avvolta nel bozzolo della materia, la figura sembra colta nel momento in cui comincia ad uscirne, ad aprirsi e distendersi nello spazio del mondo. Moderna, perché partecipe della nostra inquietudine, e primordiale come le forze oscure che s’annidano dall’origine nel profondo dell’uomo, la statua ha una forza quieta, contenuta, un silenzio eloquente, si direbbe che stia per rivelare il suo segreto.

Quella di Ferrario è una scultura semplice, priva di retorica e magniloquenza, ma non priva, come è sempre la vera scultura, di una carica di sensualità.

Il bronzo è materia esso stesso, ma è figlio di altre materie: del gesso, della terra, della cera. Nel caso di Aldo Ferrario, la scultura in bronzo è figlia di un foglio di cera che, scaldato e steso su una lastra di marmo, diventa morbido e pieghevole, ma dev’essere lavorato rapidamente, prima che si raffreddi. Questo lavorare veloce, in rapporto stretto con l’esigenza della materia, che solo per breve tempo è cedevole al desiderio dell’uomo, determina la forma dei bronzetti: il dinamismo, la tensione esistenziale della scultura si esprimono in forme congeniali alla materia, nel piegarsi, nell’avvolgersi della forma, nella linea ondeggiante, corsiva che definisce il contorno.

La figura, così mossa e naturale, viene messa in rapporto con forme irrigidite, con l’architettura, per esempio, della cabina telefonica, che l’artista sente come qualcosa di miracoloso, una sorta di capsula spaziale che di colpo isola l’uomo dall’ambiente circostante, e lo mette in comunicazione con spazi lontanissimi.

Una linea similmente rapida e scorrevole si ritrova nei disegni: schizzi rapidi, dove il largo segno a china, tracciato col pennello, accompagna attimo per attimo il movimento della modella, coglie e fissa in un istante il diverso atteggiarsi, il minimo alterarsi delle posizioni, in continua gara con il tempo.

Ferrario ha sempre preferito essere fedele alla materia e al mezzo con cui si esprime, non attenersi a schemi prefissati, ma esprimersi volta per volta nel modo più adatto: superfici più sensibili, scultura più dinamica e luministica quando lavora il bronzo; forme più compatte, asciutte e monumentali nel legno.

Tuttavia, nel suo lavoro più recente si ha l’impressione che la distanza fra i suoi due principali mezzi espressivi si vada rapidamente riducendo. Da un lato la scultura in bronzo si fa più bilanciata e costruita: la tripartizione della composizione, anche qui formata da uomo, albero e elemento architettonico, rende l’insieme più stabile, i rapporti più misurati. Dall’altro lato la scultura lignea sembra divenire più vibrante, portatrice di un dinamismo trattenuto, di un movimento spirituale che preme all’interno della materia, traducendosi in una tensione quasi insopportabile, al limite della rottura.

L’uomo di legno di Aldo Ferrario è un’immagine di sofferenza e di speranza, una presenza viva, che viene da un passato lontano ed è protesa verso il futuro, una realtà misteriosa e fortemente espressiva, che l’uomo odierno può sentirsi viva e familiare.