Artista e modella

Stefano Crespi, 2001

Nello scrivere per la prima volta di uno scultore, può essere a volte inevitabile partire da quel suggerimento folgorante di Jean-Paul Sartre quando, in un saggio (La ricerca dell’assoluto), scrive che compito degli scultori contemporanei “non è di arricchire le gallerie di opere nuove, ma di dare la prova che la scultura è possibile”. Nell’avvio di una riflessione, ritorna questa domanda: “La scultura è possibile?”.
C’è la percezione dello svanire della storia, della caduta dell’evento. La pittura è stata dipinta. Le parole sono state consumate, non appartengono più allo scrittore. Nella morte dell’immagine, dell’immaginario, tutto sembra accadere e consumarsi come su una superficie vuota: tra simulazione, citazione, riappropriazione ludica, ironia.
E’ questo un po’ lo stato d’animo con cui mi sono recato nello studio di Aldo Ferrario a Carona in preparazione della mostra per la Galleria La Colomba di Lugano. Nella prima visita a un artista, si sa, si mette in moto una condizione simbolica. Diviene in qualche misura preminente il ritratto (dove nulla è indifferente, il luogo, la scena, lo studio, la figura dell’artista, quei frammenti vivi e irriproducibili che sono le parole, i silenzi, la visione un po’ intermittente delle opere). Conta scoprire l’orizzonte culturale, la condizione anche irriflessa di una poetica, la trama dei rimandi. Per arrivare a individuare, nella varietà dei temi, delle forme, la cifra di riconoscibilità, di voce interna, di unità vissuta. Il luogo dove Aldo Ferrario è nato, e ora ha la casa e lo studio (Carona), non si presenta in un’immagine e in un taglio di natura, non sembra avere una profonda connivenza con la grammatica espressiva delle sue opere: la visione sul lago è una velatura, ha la calma struggente di un altrove. Nella giornata trascorsa qui, nella conversazione, a emergere è quasi la dialettica degli stimoli apparentemente più lontani. Aldo Ferrario si è formato per esempio a Zurigo e a Milano. Ha un ricordo (bellissimo), quasi senza parole, per lo scultore Fritz Wotruba visitato nello studio di Vienna; ma pure sente di amare la tradizione più interna della scultura italiana del Novecento da Arturo Martini a giacomo Manzù.
Come è avvenuto abbastanza frequentemente nelle esperienze artistiche, Aldo Ferrario è un lettore di letteratura, di poesia, con accenti personali, sintomatici che segnano quella continua reciprocità di confine tra poesia e immagine, voce e scrittura. Mi parla di Robert Walser, la punta forse più radicale e toccante di un non luogo svizzero. E nello stesso tempo ama il respiro fluviale, poematico di Walt Whitman.
E’ un po’ commovente vedere Carona, in un breve enigma del tempo, la casa di Meret Oppenheim, artista e poetessa dell’avanguardia parigina, fermata in modo indimenticabile, in un’eleganza di cenere, dalle fotografie di Man Ray. Ma poco lontano di può sorprendere la chiesa di Vico Morcote che ispirò una lirica del poeta americano William Carlos Williams: la grazia feriale e solenne di una quieta bellezza, di ciò che è giunto al suo “compimento”.
Non vogliono essere, queste, citazioni, sovrapposizioni. Rappresentano piuttosto, oltre a una traccia di emozione, quell’insieme sfrangiato e aperto di luogo coscienziale entro cui accostare e leggere le opere. La mostra di Lugano si definisce in un capitolo centrale costituito dai piccoli bronzi, accanto ad alcuni esempi recenti di grandi sculture. La specificità della mostra (e il fascino sottile) è riconducibile alla sequenza dei bronzetti. Nella circolarità del lavoro dell’artista sono vicini al giro più intimo del diario, della misura lirica.
Sensibilità, materia, luce, memoria, improvvisa accensione si collocano in un margine di maggior segretezza e abbandono. Al punto che il titolo “Artista e modella” può essere assunto come cifra riassuntiva di queste piccole iconologie, certamente acute nella percezione dei temi, ma con una punta di raffinatezza, di essenzialità.
Ogni diario ha valore se è anche in relazione con le forme mediatrici del racconto, dell’opera, dell’atto stesso del linguaggio e della sua metamorfosi.
Il diario è lì con il suo stupore, con i suoi enigmi, con l’espressione della finitezza, con il silenzio
(affascinante) delle metafore. Si percepisce la natura, la condizione originaria ed emotiva di questi bronzetti in prossimità delle altre opere di Ferrario, nello studio, o all’aperto in cortile.
In un testo (del 1991), Mario botta restituisce efficacemente il senso “inquietante” dell’incontro con le grandi sculture di Aldo Ferrario: il loro aspetto solenne e sgraziato, come avviene lungo la spirale della vita dove ciò che accade è inestricabilmente intrecciato di realtà e finzione, di verità e dismisura di irrealtà.
Figure (scrive Botta) “che ci osservano attraverso la loro cecità e ci interrogano con il loro silenzio”. Nel sonno del pensiero, nel senso del concetto, si libera un’insonnia caparbia delle cose, di una vita più vasta e misteriosa. La consapevolezza di queste sculture, all’altezza cronologica delle percezioni contemporanee, sta nel rifiutare la definizione astratta della forma, di un’idea; sta nel rifiutare quella ritmica degli oggetti sottratti alla mutabilità. C’è una pluralità di toni, di materia (nelle sculture di oggi, e negli esempi in mostra, il legno, il gesso, il bronzo). Si potrebbe pensare a un’apertura plurilinguistica, il cui movimento però non va verso la progettualità del futuro, ma entro una più oscura circolarità dell’origine.
Nel crepuscolo della filosofia, nelle ceneri della metafisica, anche la scultura dovrà accettare la caduta dallo stato di grazia. Nella cifra del tempo, la scultura è presenza, rivelazione o solitudine dell’orizzonte umano.
Conferma, nella scansione espositiva, possono essere temi come la figura femminile (legno e gesso), i personaggi (legno e bronzo).
Tra le sollecitazioni della visita allo studio, c’era la scultura Eva (all’interno di un ciclo espositivo per un’esposizione in una chiesa). Nella monumentale biografia dedicata da James Lord ad Alberto Giacometti, viene riportata un’espressione del grande scultori il quale diceva che (nella rappresentazione della figura e del volto) i capelli sono una “menzogna”. L’intuizione di questa scultura, Eva, è proprio la rappresentazione di una capigliatura al modo di una foresta sontuosa, in quell’immaginario mitico prima delle categorie culturali.
Qualcosa di assolutamente emblematico, e perfino paradigmatico nella presenza di questo scultore, è stata la vista improvvisa in cortile scultura Uomo con la sindone (presente anche in mostra in una piccola intensa variante in bronzo).
Credo che la scultura di Aldo Ferrario possa ricondursi all’archetipo di quel gesto. La scultura è un gesto, e il gesto è il tema dell’infedeltà al linguaggio. Nel gesto c’è l’intonazione, l’intensità, l’antica magia, il silenzio sotto il rumore delle parole. Quella scultura, Uomo con sindone, è la nudità intatta e primordiale di u gesto.
Davanti a questa scultura, un suggerimento ricco di passione può venire dalla pagina di Giovanni Testori.
Leggendo le bozze di un prossimo volume di Testori (La cenere e il volto. Scritti sulla pittura del Novecento), del capitolo dedicato ad Antonio Lopez-Garcia, cade proprio il riferimento alla cifra della sindone come punto irresolubile, estremità amorosa. Nella scultura di Aldo Ferrario, il legno bianco di Uomo con la sindone non è eleganza, non astratta assolutezza. Ha in proprio una sorta di ambiguo candore come se della vita avesse accolto la traccia ultima del respiro.
Più nitidamente possiamo comprendere la collocazione dei bronzetti nell’impegno complessivo di Aldo Ferrario. Anche qui c’è un gesto nella vibrazione, nell’eros della materia, nella fascinazione di un rito dell’umano: L’offerta, figure, personaggi, Quelli che restano, L’eco, un evento del quotidiano, un motivo della mitologia. Ma è forse il tema Artista e modella (in alcune bellissime variazioni) che crea l’unità emotiva di questi bronzetti e una sorta di autoritratto involontario.
C’è particolarmente in questo tema, Artista e modella, la duttilità e la cultura di Aldo Ferrario: l’incisività del segno e la fluidità di Matisse, lo spazio relazionale di Giacometti, quel profilo vitale e sensuale della scultura italiana.
Ciò che accomuna questi bronzetti, legati nel dato espressivo alla condizione unitaria di Artista e modella, è la composizione, un equilibrio di ritmi e di linee: qualcosa di sensibile, di musicale, di inafferrabile che fa pensare a una dimensione di immaginazione. Il rapporto con la modella è il rapporto con lo specchio, con lo sguardo, con un’alterità sfuggente. L’immagine allo specchio è illusione, oblio, congedo, eco, dove il punto di perfezione viene quasi a coincidere on la sua inesistenza.
Sia pure con un’abbreviazione, si può ritenere che il tema (nella coscienza stessa dell’oggi) si riconduce non tanto a un connotato di icona (definizione di spazio, di tempo, di un’idea) quanto invece a un’immagine (evento dello sguardo, tempo interiore). L’opera viene a significare non tanto la cosa, ma il linguaggio, la cerimonia del gesto, il cerchio muto di un’assenza.
In un’osservazione conclusiva, la visita allo studio di Ferrario, a Carona, davanti al calmo orizzonte del lago, ha richiamato un testo di grande intensità di Friedrich Dürrenmatt, Vallon de l’Ermitage. È il racconto autobiografico della vita e del quotidiano nella casa di Neuchâtel. Lo sfondo costante del racconto è il lago.
Ma invano lungo tutte le pagine si cercherebbe un’inclinazione di luce, di “aura” (forse una velatura nella nitida traduzione in italiano). Dürrenmatt è originalmente imperdonante nel cogliere un catalogo biografico(così svizzero) entro un lucido, dissacratorio disincanto.
Nell’incontro con Aldo Ferrario rimane indimenticabile quello sguardo del lago. Forse indimenticabile, sulla scena dell’oggi, questo temo Artista e modella: nella sua punta di congedo linguistico, di commossa “improbabilità” poetica.