Ruggero Savinio, 1977
La singolarità della posizione che Aldo Ferrario ha scelto di occupare nel panorama della scultura attuale, più che un approccio frontale, diretto chiede, per essere colta, la definizione dell’orizzonte che la racchiude.
Con Aldo Ferrario ci troviamo di fronte a un artista che, a occhi ben aperti, si è guardato attorno a lungo. Ha preso, là dove li trovava, gli stimoli che gli servivano per una definizione di sé. Certe recenti esperienze americane conosciute direttamente in loco, ha creduto di poterle fare proprie; si è confrontato con le sperimentazioni più rigorose e più azzardate. Poi, da qualche tempo, ha smesso di misurarsi con la cronaca. Ha capito che la definizione che cercava passava dalla definizione del suo orizzonte, anche orizzonte del suo territorio: la zolla lombarda ricca di succhi tedeschi e mitteleuropei dove è nato e vive e lavora.
Dire che Ferrario è della razza di costruttore che sono i ticinesi rischia la retorica regionalistica. Lo dico perché penso che il rischio ha di nuovo bisogno di essere corso. Credo che Ferrario non smentirebbe l’idea di un’arte ancorata alle proprie ragioni territoriali, al proprio habitat, e che c’è in lui qualcosa dell’amoroso fervore con cui Francesco Arcangeli assegnava a una certa posizione artistica, ma anche morale, i confini della Padania.
Infatti, si tratta, anche, di morale.
Un altro concetto scomodo, apparentemente superato dal puro gioco razionale, dalle scelte tutte mentali, concettuali. Ecco indicata un’aerea del territorio artistico alla quale lo scultore si contrappone. La sua contrapposizione non ha niente di polemico: nasce da quelle ragioni morali che ho detto.
Uno dei paradossi dell’epoca è il rifiuto del “fare”, della manualità da parte di chi, spesso, si dichiara materialista. Avanzo un’ipotesi: non c’è stata mai un’epoca di tanto dilagante idealismo mascherato dal suo contrario.
Aldo Ferrario non si tiene all’idea; accetta la scultura come lavoro, come produzione. Ecco la manualità. In questa scelta che la situazione cui ho accennato rende radicale, si trova davanti tutti i nodi della tradizione moderna. Lo sforzo di continuare a fare scultura liberandosi dall’ipoteca monumentale: lo sforzo di Rodin, di Medardo Rosso, di Matisse, scultore. Nelle piccole sculture, nei bronzi e nei gessi. Aldo Ferrario risolve a suo modo il problema, tenendo d’occhio gli scultori appena detti scelti come maestri d’elezione.
La scultura, prima che monumento o canone, è cresciuta. Cresce nello spazio come un organismo, come le piante. Forse per questo lui allinea nello studio le sculture frammezzo ai vasi verdi: per avere una verifica vegetale.
Ecco che, accanto alle piccole sculture, cresce adesso una popolazione di tronchi. Figure intagliate nel legno. Tronchi che lo scultore va a cercare amorosamente nei boschi dietro casa. Che conservano un po’, o molto, della loro vita vegetale e che aspirano, forse a ridiventare foresta.
Lui dice che il suo interesse maggiore è per la figura umana. Verissimo. Ma queste figure alludono meno alla carne che alla vera materia: il legno.
Un’altra chiave, forse la più importante, per capire la manualità di Ferrario, il suo autentico materialismo.
Dice anche, come per giustificarsi di un’apparante incoerenza stilistica fra le due serie di sculture, i bronzi e i legni, che lo interessa soprattutto la coerenza del materiale. Il materiale, per un artista, ha esigenza che si tratta di capire, di assecondare. Ecco un’idea molto importante. La stessa che muoveva Bachelard a indagare il sogno dei vari elementi.
“Gli elementi, fuoco aria terra, i quali per tanto tempo sono serviti ai filosofi per pensare magnificamente l’universo, restano in arte i principi della creazione. Il loro agire sull’immaginazione può apparire remoto, metaforico. Tuttavia, non appena si scopre l’esatta appartenenza di un’opera d’arte a una forza cosmica elementare, si ha l’impressione di scoprire una ragione d’unità che rafforza l’unitarietà delle opere meglio composte. Di fatto, con l’accettare la sollecitazione immaginativa degli elementi, l’artista accoglie il germe naturale di una creazione”. (G. Bachelard: Le droit de rêver).
In arte la materia sogna il suo sogno.
C’è il sogno del bronzo, più aulico, eroico e retorico. C’è il sogno della pietra, il più barbarico, titanico e ferino. C’è il sogno del legno, il più dimesso, quotidiano, il più umano.
Il gesto con cui Aldo Ferrario sbozza i suoi tronchi lo vedo come il lento, talvolta impercettibile dare ai tronchi la propria identità senza attentare alla loro.
Al di là dall’eroismo del bronzo, dal barbarismo della pietra che sempre alludono, anche nei migliori (Moore, Wotruba…), a un impossibile umanesimo restaurato, la descrizione di questa presa di possesso indica un desiderio di ricomposizione tra uomo e natura. Nel legno, attraverso il gesto che non rinuncia al “fare”, mi sembra che Aldo Ferrario cerchi, e trovi, la saldatura con la natura, con la sua natura.