Dall’uomo agli uomini – Visioni scultoree di Aldo Ferrario

(Testo a cura di Silvia Bassani)

Una moltitudine di persone erette punteggia lo spazio. Simili a totem si ergono nella loro individualità o nel loro isolamento. Assomigliano a vedette o a sentinelle, in vista di un nuovo mondo, oppure a difesa di un ideale. La loro posizione ritta fa pensare a qualcosa di primordiale, lo sguardo fisso davanti a sé, il corpo immobile. Cosa stanno aspettando, o cosa difendono?

“La figura umana è una creatura sacra. Nel bene o nel male l’uomo ha qualcosa di divino.”
Con questa asserzione, Aldo Ferrario tocca uno dei temi intorno a cui ruota l’intera sua produzione. La sacralità dell’immagine umana è, infatti, per l’artista il diaframma intorno a cui si concretizza la natura e la coscienza. Questo attributo emerge, non soltanto da alcuni soggetti biblici, ma dalla stessa univoca predilezione per l’essere umano, quale luogo di memoria e bacino di riflessioni storiche e personali (per esempio nella scultura Giovane che si comprime la pancia). “La figura umana è una creatura sacra. Nel bene o nel male l’uomo ha qualcosa di divino.”
Con questa asserzione, Aldo Ferrario tocca uno dei temi intorno a cui ruota l’intera sua produzione. La sacralità dell’immagine umana è, infatti, per l’artista il diaframma intorno a cui si concretizza la natura e la coscienza. Questo attributo emerge, non soltanto da alcuni soggetti biblici, ma dalla stessa univoca predilezione per l’essere umano, quale luogo di memoria e bacino di riflessioni storiche e personali (per esempio nella scultura Giovane che si comprime la pancia).”La figura umana è una creatura sacra. Nel bene o nel male l’uomo ha qualcosa di divino.”
Con questa asserzione, Aldo Ferrario tocca uno dei temi intorno a cui ruota l’intera sua produzione. La sacralità dell’immagine umana è, infatti, per l’artista il diaframma intorno a cui si concretizza la natura e la coscienza. Questo attributo emerge, non soltanto da alcuni soggetti biblici, ma dalla stessa univoca predilezione per l’essere umano, quale luogo di memoria e bacino di riflessioni storiche e personali (per esempio nella scultura Giovane che si comprime la pancia).

« La figura umana è una creatura sacra. Nel bene o nel male l’uomo ha qualcosa di divino. »
Con questa asserzione, Aldo Ferrario tocca uno dei temi intorno a cui ruota l’intera sua produzione. La sacralità dell’immagine umana è, infatti, per l’artista il diaframma intorno a cui si concretizza la natura e la coscienza. Questo attributo emerge, non soltanto da alcuni soggetti biblici, ma dalla stessa univoca predilezione per l’essere umano, quale luogo di memoria e bacino di riflessioni storiche e personali (per esempio nella scultura Giovane che si comprime la pancia). « La figura umana è una creatura sacra. Nel bene o nel male l’uomo ha qualcosa di divino. »
Con questa asserzione, Aldo Ferrario tocca uno dei temi intorno a cui ruota l’intera sua produzione. La sacralità dell’immagine umana è, infatti, per l’artista il diaframma intorno a cui si concretizza la natura e la coscienza. Questo attributo emerge, non soltanto da alcuni soggetti biblici, ma dalla stessa univoca predilezione per l’essere umano, quale luogo di memoria e bacino di riflessioni storiche e personali (per esempio nella scultura Giovane che si comprime la pancia). »La figura umana è una creatura sacra. Nel bene o nel male l’uomo ha qualcosa di divino. »
Con questa asserzione, Aldo Ferrario tocca uno dei temi intorno a cui ruota l’intera sua produzione. La sacralità dell’immagine umana è, infatti, per l’artista il diaframma intorno a cui si concretizza la natura e la coscienza. Questo attributo emerge, non soltanto da alcuni soggetti biblici, ma dalla stessa univoca predilezione per l’essere umano, quale luogo di memoria e bacino di riflessioni storiche e personali (per esempio nella scultura Giovane che si comprime la pancia).

La calma domina questi corpi. Sono perentori con la loro monumentale scabrosità, prodotta dal trattamento d’intaglio, quasi brutale con asce e motoseghe. “L’arte è un linguaggio emozionale e la precisione matematica non si presta all’espressione delle nostre emozioni”, scrive Medardo Rosso. Tale affermazione trova piena rispondenza nell’approccio istintuale che guida l’atto creativo di Aldo Ferrario, sposando in pieno anche la lezione di Henri Matisse, quando dichiara che “non si deve assolutamente far coincidere il modello con una teoria o un effetto preconcetto. (…) Davanti al soggetto dovete dimenticare tutte le vostre teorie, tutte le vostre idee”. E Matisse continua sostenendo che una forma scultorea si fa strada dalla libera espressione degli istinti e “verrà fuori esprimendo l’emozione risvegliata in voi dal soggetto”. Non a caso citiamo Matisse, le cui teorie hanno influenzato in modo determinante il percorso artistico di Aldo Ferrario, conducendolo verso un’espressione non più vincolata ai canoni accademici di proporzioni matematiche e meccaniche. L’uomo di Ferrario esterna la propria varietà ed autonomia, principalmente nell’apparente disarmonia fisica. In realtà, complessi rapporti di tensione sono alla base di ogni figurazione, ed ogni lavoro procede senza bozzetti preparatori, spinto dalla forza istintuale, quasi primordiale, dell’esecuzione.

“Quello che mi interessa […] è la figura umana.” afferma Matisse, “La figura mi permette più degli altri temi di esprimere il sentimento, diciamo religioso, che ho della vita”. A questo assunto, Ferrario risponde con una evocazione epica dell’uomo, trovando molte affinità con la poetica del Novecento, di rimettere l’uomo al centro del quadro; pensiamo a Mario Sironi, citato più volte dallo stesso Ferrario quale pittore tra i suoi prediletti, alla qualità monumentale della sua pittura, alla resa possente delle figure. Nell’opera di Ferrario, una simile caratteristica si riflette nella sbozzatura essenziale, nei tagli geometrici dei corpi, che li avvicinano idealmente a quelli vigorosi del mosaico L’Italia corporativa (1936), o della vetrata La carta del lavoro (1931-32) di Sironi.

Nella scelta monotematica, di orientarsi sulla figurazione umana, si avverte una segreta
solidarietà, nella quale si profila una sorta di genealogia dell’essere umano che, nell’opera
di Ferrario, prende avvio dai Progenitori (1997). Una duplice scultura in cui Adamo ed Eva,
stretti da una vicinanza forzata, sono intagliati nello stesso ceppo; dividono e condividono
materialmente e simbolicamente la stessa nascita.
Tra le varie rappresentazioni della Eva, quella realizzata nel 1997 spicca sulle altre prove, per il contrasto che incarna. Seduttrice e sedotta, Eva si presenta con un grande e solido corpo, da antica matrona, ma la tinteggiatura rosa di rivestimento, presume un candore che rimane celato, latente e stride con le carni poderose e la lunga chioma di capelli corvini. C’è una forte carica sensuale in questa prima donna, velata soltanto dai lunghi capelli, i quali fungono da elemento plastico indipendente, dentellatura funzionale di un gioco prezioso instaurato con la luce.
Una simile valenza plastico-simbolica è presente nella capigliatura di un’altra raffigurazione femminile: la Maria Maddalena (1997). In entrambe le sculture, la massa dei capelli sembra figurare un altro da sé, un doppio: la grazia e il peccato originale nella figura di Eva, la colpa e la santità nella Maria Maddalena. Attraverso le loro appendici, queste due figure riflettono in modo speculare il proprio vissuto.
Lo stesso elemento plastico cilindrico, gioca un ruolo importante anche nel gruppo scultoreo degli Uomini con la Sindone e nella figura del Filosofo blu. Nel primo gruppo, la Sindone assume una saldezza strutturale tale da trasformarsi in un elemento architettonico di sostegno. La Sindone, testimonianza dell’esistenza fisica del Cristo, in realtà, qui è innalzata quale manifesto visivo della sua umanità. Aldo Ferrario definisce gli Uomini con la Sindone gli Evangelisti, secondo la tradizione coloro che predicavano la parola di Gesù attraverso il Vangelo. Nel gruppo, invece, la presenza della Sacra Sindone associata agli Evangelisti, apre un’ulteriore prospettiva. Qui l’artista rilegge gli Evangelisti quali testimoni per mezzo della reliquia della sembianza umana del Cristo, concreta ma immateriale.
L’uomo che la innalza davanti a sé, nel suo biancore smaterializzato, ne diventa ombra,
persino piedistallo di un’icona. Alla scelta originale del soggetto, Ferrario contrappone un
linguaggio scultoreo sciolto, privo di accenti declamatori.
Il gruppo di sculture dei Progenitori, di Maria Maddalena e degli Uomini con la Sindone,
sono stati realizzati in occasione di un’esposizione avvenuta nel 1998, presso la chiesetta
romanica di S. Giovanni Battista, a Gnosca. Il luogo espositivo (restaurato da Tita Carloni
e Angelo Martella) è caratterizzato da una piccola navata a cielo aperto. Questo spazio ha
svolto un ruolo determinante nella scelta tematica dei soggetti, diventando esso stesso
fonte di suggestione.
Fra i temi più volte ripresi da Aldo Ferrario, quello della Maternità occupa, sicuramente,
un posto di rilievo. Nell’opera del 1996-97 la figura femminile è imponente, dilatata sino a
lacerare la sua forma originaria ed abbracciare una solidità architettonica. Ferrario prende
ispirazione dagli edifici “esistenziali” (come lui stesso li definisce) dei dipinti di Mario Sironi,
per accordare alle proporzioni un accento introspettivo. Alla figura materna sono affiancati
due figli maschi, ognuno dei quali esibisce un oggetto fra le mani. Il primo solleva una
colomba bianca, l’altro un oggetto dalla punta acuminata, forse una lama. Seguendo il filo
di tale ipotesi, si potrebbe identificare la scena come il confronto fra Caino ed Abele. I due
fratelli appaiono racchiusi nel duplice attimo dell’offerta innalzata a Dio e l’approssimarsi
del tragico fratricidio. La tensione dei corpi, culminanti nelle braccia tese, si frange nella
testa reclinata, quasi spezzata di Abele, in uno slancio interrotto, in un’aspirazione
sospesa.
Nella scultura dal titolo il Filosofo blu (1998), le implicazioni plastiche si fanno più articolate. La figura eretta dell’uomo, si snoda attorno alla tubolare veste lignea, di un intenso blu cobalto, da cui emergono il capo di bronzo, le lunghe braccia pendenti ed i piedi, anch’essi di bronzo. La testa del filosofo si mostra come una lamina di bronzo sottile e quasi fragile, che espone un presunto vuoto sonante al suo interno. Così che l’osservatore si sente spinto a chiedersi: da dove nasce il pensiero, secondo l’artista?
En archè èn ho logos, in principio era il Logos, recita l’esordio del Vangelo secondo Giovanni. E: tutto ciò che è venuto ad essere è venuto ad essere per mezzo del Logos, e senza il Logos nulla sarebbe venuto ad essere di ciò che è venuto ad essere.
Su questo fondamento ideale, il capo del filosofo, aperto e apparentemente ‘vuoto’, si
rivela scrigno prezioso di avvenimenti trascendentali, di vicende che alla comprensione
umana si sottraggono. È qui che nasce il pensiero. E si ha l’impressione che proprio il
pensiero umano rappresenti, di nuovo, quel luogo inconcreto, nel quale si evolve la
concretizzazione del logos nella vita dell’uomo. A lungo prima della materializzazione,
della trasformazione del logos nel fisico, la mente umana fa da strumento, che dà suono
alle vibrazioni metafisiche, della più sensibile e comprensiva espressione dell’idea divina.
In questo senso, la figura del filosofo, eretta ma fondata, stante fermo con ‘i piedi per
terra’, funge da medio vitale tra il divino e l’umano.
“Rappresento l’uomo contemporaneo, ma con citazioni che vengono da lontano” sostiene Aldo Ferrario. Tali citazioni si possono cogliere nelle appendici bronzee dei piedi, che richiamano lo stile severo dell’Auriga di Delfi. Ma, se il capo rappresenta “la materializzazione della parola nell’oggetto”, i piedi sono il suo sicuro ancoraggio alla realtà terrena.
Spontanee affinità con la scultura greca, si rintracciano anche nella qualità coloristica della superficie lignea del Kouros (2003): la prima stupenda serie arcaica dell’arte greca, del fregio di Sifni o dei frontoni di Egina. L’utilizzo del colore rappresenta un mezzo comune nella scultura greca, basti pensare ai ritrovamenti di colore nel maestoso fregio del Tempio di Pergamon. Ferrario assimila l’intuizione dell’arte greca, soprattutto nel concepire il volume come blocco e scomporlo nelle sue facce prismatiche, o nella rotativa del cilindro o del cono. Il Kouros di Aldo Ferrario è una figura virile nuda, nella quale i tratti fisionomici si avvicinano all’astrazione. Il giovane uomo è un essere ideale e il suo aspetto quasi divino, è sottolineato dall’aurea blu che lo avvolge. La corporatura lo assegna a quella giovinezza fermata nel suo periodo fiorente; la posa statica, le membra distese ed incollate lungo i fianchi, suggeriscono l’intenzione di conservare l’integrità della forma, insieme ad un vago anelito verso un’età perduta.
La continua riflessione sul passato, procede poi, di fatto, con la libera contaminazione di più riferimenti culturali, come nel Gruppo policromo (2002-03). Qui la lezione di Marino Marini si intravede nella stessa vibrazione pittorica che scalfisce la superficie, a ricordare opere mariniane quali il Cavaliere, l’Angelo della città (1949) o il Miracolo (1954). Nel gruppo scultoreo di Ferrario la notazione cromatica ha, allo stesso tempo, anche il ruolo di sottolineare ed esaltare le linee di forza della composizione. Alla sommità del gruppo si adagia una piccola figura ripiegata su se stessa, in posizione fetale. Dorme un sonno di fanciullezza, mentre gli adulti vigilano sul presente?
Questo richiamo arcaicizzante nelle opere sopraccitate è bilanciato dall’opera di taglio e di scavo, la quale restituisce alla scultura una qualità formale contemporanea. Nella sperimentazione e negli echi di antichi linguaggi, si afferma la tendenza a rileggere la
figura femminile in chiave storico-archeologica. La Donna Egizia (2004-05) conferma questa ipotesi. L’immagine proviene ancora una volta da lontananze, le cui profondità sembrano racchiuse nel volto e, in particolare, negli occhi: uno sguardo buio e insieme acceso da una luce di remota saggezza. Alla fermezza della figura femminile si contrappongono una serie di elementi che offrono repentini cambi di prospettive. La tridimensionalità degli elementi in gesso, spinge in secondo piano il corpo chiuso della donna e protende in avanti le vestigia corporee, come fossero resti di memorie. Anche il gioco cromatico fra la chioma scura dei capelli e il biancore della pelle di gesso, stanno ad indicare che la ricerca formale di Ferrario, si avvia verso una maggiore attenzione alla natura poliedrica del soggetto.

Il tipo di estetica visibile nel lavoro di Ferrario, rispecchia in maniera diretta la sua personalità. L’immaginario dell’artista è ricco di vitalismo, lui stesso trova che “il divertimento è una componente essenziale della creazione”. Al fianco di ciò, compare un aspetto critico, non mascherato da perbenismi. La battuta sagace affonda i denti, proprio nel difendere la libertà individuale dell’artista. Il valore attribuito alla propria fedeltà e coerenza, si riflette nelle parole di Gustav Courbet, il quale, nella Lettera al Ministro di Belle Arti Maurice Richard, del 23 giugno 1870, scrisse: “L’onore non è né in un titolo, né in un nastrino; è negli atti e nel movente degli atti. Il rispetto di se stessi e delle proprie idee ne costituisce la parte fondamentale. Ho il rispetto di me stesso restando fedele ai principi di tutta la mia vita; se li tradissi, cederei l’onore per prenderne il simbolo.” A difesa di questo onore Ferrario ha schierato i suoi uomini.
Alla domanda sulla responsabilità di svolgere il mestiere di artista, Ferrario risponde
che avverte una forte esigenza di autenticità, senza farsi fuorviare da altri e più allettanti
richiami. “La nobiltà di un’arte dipende dalla purezza del desiderio da cui procede e dall’incertezza dell’autore sul felice esito della propria azione. Più l’artista è reso incerto sul
risultato del suo sforzo dalla natura della materia che plasma e dagli elementi che usa per
dominarla, più puro è il suo desiderio, più evidente il suo valore”
Nella forma scultorea di Ferrario è possibile riconoscere un compiaciuto elogio
all’imperfezione, che si palesa nella scelta della materia prima e, soprattutto, nel graffiare
ed incidere profondamente i corpi, esponendoli così alla loro vulnerabilità. Tali interventi
potrebbero essere interpretati come dubbi o ripensamenti ed acquisire un valore intenzionale, se allacciati al concetto più generale sull’incertezza della civiltà, che attraversa il percorso artistico di Aldo Ferrario. In questa prospettiva può essere collocata anche l’opera più recente, il Filosofo schifato (2005). Questa scultura dimostra più aspre esigenze espressive e si muove in direzione di una superiore unitarietà significativa fra corpo e volto. Attraverso un tipo di modellazione per assemblaggio (utilizzato per Donna Egizia e Filosofo blu), l’artista esterna un linguaggio articolato, in cui sono visibili le tracce del percorso di elaborazione. Se il legno è aggredito da lacerazioni profonde, il gesso simula, al contrario, una levigatezza cutanea artificiale, producendo un paradosso. Alla fisicità del legno, alla sua imperfezione naturale, si contrappone la resa analitica della parte in gesso, unico elemento figurativo della composizione, il quale crea una soluzione formale disarmonica, con effetto di protesi. Il filosofo, per tradizione personificazione della meditazione tragica sul destino dell’uomo e sul creato, è qui traslato nell’autoritratto dell’artista, che fonde e confonde il concetto e la forma, in un ribaltamento multiplo di prospettive.
In ogni scultura di Ferrario assistiamo ad una forma di ripensamento, a volte soltanto
formale, in altre con un assunto maggiormente etico. Nel Filosofo schifato i due aspetti
convivono, generando una provocazione. Il filosofo ha la forza di una sfida aperta: è un
giudizio ed un invito, all’autocritica prima di tutto.

Tutta l’opera di Aldo Ferrario è una poesia dedicatoria all’uomo moderno, alle sue sfide, ai
suoi fallimenti. Parla agli uomini con un linguaggio privo di ermetismi, chiaro e limpido
negli intenti. Anche l’arte, in generale, è concepita dall’artista come “qualcosa di
avventuroso, come una scoperta” (Ferrario).
Il rigore e la serietà, ma soprattutto l’essenzialità dell’operazione scultorea, non
concedono nulla al decorativismo. Ferrario cesella affreschi di un’umanità organizzata per
gruppi tematici, dove la percezione scultorea del corpo mostra il suo accento
contemporaneo, nella frantumazione e alterazione della forma anatomica, creando
figurazioni simili a ritrovamenti di una antica modernità.

Arricchisce l’esposizione una galleria di ritratti realizzati per lo più su commissione dal 1994 al 1998. Nella pittura, Ferrario abbandona il vigore monumentale dei corpi, per accostarsi con molta sensibilità alla resa psicologica del personaggio. Questo aspetto affiora con forza dalla scelta delle ambientazioni. Tutti gli uomini, infatti, sono ritratti nella stessa posa, seduti sulla stessa poltrona dirigenziale nera. Questa omogeneità di fondo permette di far risaltare l’individuo, le sue peculiarità caratteriali. E il colore è il mezzo privilegiato per esprimere la visione del soggetto ritratto.
I toni giocano intorno a due tessiture contrastanti, in cui prevale una tonalità rosa, così
accesa, da trasfigurare i personaggi. Pur mantenendo una propensione verso la figurazione, essa è rivisitata in chiave grottesca. Da tutti i ritratti emerge un uso del colore puro e squillante in cui, alla resa naturalistica del soggetto, è preferita una rielaborazione intimista.
L’attenzione di Ferrario per la resa psicologica del personaggio è particolarmente esplicita nel ritratto del Professor Schneemann. Nella tela la figura è spostata verso destra e si staglia su un cupo e vuoto fondo nero, imprigionando il personaggio ritratto. Il volto è pennellato senza alcuna certezza descrittiva, appare in verità sfocato, con i lineamenti sciolti nel colore. In evidente contrasto con la precisione disegnativa del mazzo di fiori, quasi a stravolgere il senso del quadro: ritratto o natura morta con uomo? I fiori dominano il primo piano, mentre l’uomo si materializza sul fondo, in qualità di personaggio secondario di se stesso. La precoce morte dell’uomo ritratto, trasforma la tela in un acuto presagio. Dal punto di vista pittorico, il ritratto rivela una certa ascendenza dalla tecnica’distorta’ di Francis Bacon, quanto la fissità dell’atteggiamento e la mancata idealizzazione del personaggio.
La stessa attenzione verso una caratterizzazione fisionomica e psicologica è rintracciabile in tutti i ritratti presenti in mostra. Ciò può essere ricondotto all’interesse di Ferrario per l’uomo del proprio tempo, quasi a volerne fissare i tratti tipologici essenziali.
Il colore irrompe con vigorose pennellate e si stende per larghe campiture anche nel Gruppo di figure con gallo o nel ritratto dell’ingegner W. Bohnstedt. Domina nella pittura di Ferrario la semplificazione dell’immagine, assieme all’uso di una gamma cromatica equilibrata fra toni caldi e freddi, come nel fondo rosa e nella tuta azzurra del ritratto dell’ingegner W. Bohnstedt. I colori paiono non tradurre la realtà fedelmente, quanto disporsi a creare una suggestione del personaggio.