Alda Ferrario dipinti-sculture-disegni

Luciano Caramel, 1986
Galleria pro arte Lugano

Estimatore di Aldo Ferrario scultore, mi trovo ora a tenere a battesimo Aldo Ferrario pittore. L’invito, oltre che gradito, è stimolante: per la possibilità di confrontare, e mettere in dialettica, due diversi livelli espressivi – anzi, almeno in certa misura, due diversi linguaggi – all’interno del lavoro d’un unico autore. Il che comporta la verifica di specificità e comunanze, di parallelismi e divergenze, di intrecci anche, e persino, magari di iterazioni.

Una prima costatazione, intanto, nasce immediata: quella della non riducibilità del dipingere, in Ferrario, a momento subordinato allo scolpire. Nel senso che l’artista non si limita a utilizzare pennelli e colori per tradurre sulla superficie il proprio mondo plastico, trasferendo l’immagine dalle tre alle due dimensioni, e neppure intende il fare entro i margini della tela solo quale fase preparatoria, finalizzata alla realizzazione nella fisicità della statua. Al contrario, oggi almeno, affronta l’immagine dipinta come realtà autonoma, da percorrere con criteri particolari, senza peraltro lasciarsi attrarre da incompatibilità poste a priori.

Uso a distinguere nella stessa pratica scultorea possibilità e limiti dei materiali (altro, sa bene, è quanto consente di ottenere il legno e altro quanto permettono la pietra, la creta, il bronzo), Ferrario è avvertito di ciò che comporta lo spazio illusorio del quadro. Ne conosce le inadeguatezze, ma anche le flessibili valenze. Ed anzi proprio quelle e queste l’hanno consigliato a saggiare con aperta disponibilità le peculiarità dello strumento, o forse addirittura a tentare il nuovo, inedito registro.

Col che non si vuol dire che nulla accomuni il Ferrario pittore al Ferrario scultore. Non poche affinità, di temperie espressiva, ed anche di metodo, sono anzi evidenti, soprattutto se si guarda a certe figure in legno potentemente definite con una perentorietà di gesto che ritroviamo nei dipinti, ove tuttavia il segno è caricato dalla necessità di esprimere, in un certo senso, la presenza dell’assenza. Manca, nel quadro, ovviamente, la praticabilità concreta dello spazio e l’incombere medesimo della materia. Per cui tutto deve farsi più allusivo, più virtuale. Più reticente, anche, ma, nelle tele di Ferrario, in funzione di una diversa eppur altrettanto tesa concretezza.

Ed è ovvio che nel dar corpo ai suoi personaggi, spesso – è significativo – inseriti in un ambiente (le stanze della casa, l’atelier, il giardino), l’artista tenga conto di quanto la pittura, di ieri e di oggi, ha sperimentato. Ma appunto questo dialogo registra e provoca un ulteriore scarto nei confronti delle coordinate entro cui s’era dipanata l’attività plastica. I riferimenti culturali sono ormai altri da quelli riscontrabili nella scultura. Non più il fremente lievitare delle superfici di un Medardo Rosso o di un Giacometti, non il metaformismo volumetrico di un Picasso, Brancusi, Moore, e neppure la scansione strutturale di un Wotruba. Invece, la solarità cromatica di Matisse e la crudezza di Beckmann, per far solo due nomi, tuttavia indicativi, nella loro difformità, della bipolarità culturale, tra Francia e Germania, attiva in Ferrario, che continua ad essere caratterizzato, come nell’opera scultorea, da una pluralità fertile di linfe, tuttavia con più diretta coscienza della modernità. Nel senso che rimane innestato in più culture (non però, ora, in quella italiana, e lombarda) senza esser condizionato dal museo. I modelli, certo, restano, ma fusi al calore di una partecipata attualità, da valutare nel contesto delle vivaci esperienze europee contemporanee.

Ecco infatti i tagli originali dei grandi ritratti, ecco la suadente aggressività del colore, l’energia controllata del segno, la diramata varietà dell’organizzazione spaziale, oltre una troppo vincolante definizione prospettica. Ecco soprattutto l’accantonamento d’ogni frenante descrittività, a favore d’una dinamica figurale disincantata: perché sciolta da convenzioni figurali sapute e dalla volontà medesima di dire troppo; e perché, anche, innervata, come appunto tutta la giovane pittura, da sottili istanze d’ordine mentale.