L’umiltà della materia – Appunti per Aldo

Renato Giovannoli, 2005

Aldo Ferrario sa bene che il primo artista è Dio, che creò l’uomo “a sua immagine e somiglianza”(Genesi 1, 27). Restituita in tutta la sua pienezza dall’Incarnazione, la somiglianza dell’uomo con Dio fa sì che la figura umana del Cristo sia immagine adeguata di Dio – che in quanto Dio nessuna forma potrebbe rappresentare – e, subordinatamente, è la ragione del carattere essenzialmente antropomorfo dell’arte cristiana.
Il lavoro di Aldo, di cui la figura umana è criterio formale e pressoché unico soggetto, si inserisce in questa tradizione.

A proposito della scultura di Aldo Ferrario, del suo carattere carattere “primitivo” e scabro, e della sua difformità rispetto ai canoni anatomici, si è talvolta fatto riferimento alla scultura romanica, che, come anche la pittura di icone, rifugge il naturalismo.
Il Rinascimento si farà un idolo dell’anatomia, ma nella prospettiva medievale lo scopo dell’arte non è l’imitazione delle opere della natura, quanto della natura nel suo modo di operare, 1 e l’artista del Medioevo lavorava non con gli occhi del corpo rivolti alle creature, ma con lo sguardo dell’intelletto fisso sui logoi celesti, contenuti nel Logos divino, che delle creature sono il modello eterno. È evidente che su una tale arte non fa presa il rimprovero di fare “copie di copie”, che Platone rivolgeva agli artisti suoi contemporanei, 2 così come le immagini di essere viventi presenti nel Tabernacolo costruito da Mosè secondo “il modello che Dio gli aveva mostrato sul monte” (Esodo 25, 40), “copia e ombra delle realtà celesti” (Lettera agli Ebrei 8, 5), ma copie di primo e non di secondo grado come quelle condannate da Platone, non rientravano evidentemente nel divieto divino di farsi immagini (Esodo 20, 4).
La semplicità e l’astrattezza della scultura romanica, sono dunque funzionali al suo carattere
simbolico in senso proprio, a una concezione verticale e non orizzontale della rappresentazione iconica, per cui la figura umana rappresenta in primo luogo non questo o quell’uomo, ma l’”idea”, il logos dell’uomo, e l’arte deve parlare all’intelletto piuttosto che ai sensi e al sentimento.
Talvolta nella scultura di Aldo, troviamo riferimenti non al romanico bensì all’arte egizia o a quella greca arcaica: per esempio nella “Donna egizia” o in “Cleobi”, che Aldo definisce un kouros. Da notare anche, da parte sua, l’uso di una policromia esplicitamente ispirata a quella della scultura greca. Le decorazioni del “Gruppo policromo”, ad esempio, rinviano a quelle di un arciere troiano provenienze dal tempio di Athena Aphaia a Egina, ora alla Gliptoteca di Monaco, di una copia del quale, con ricostruzione della policromia originale, ho visto una fotografia appesa nel suo atelier. Ma, sia nel caso dell’Egitto che in quello della Grecia arcaica, si tratta di “stili” che sembrano avere alla base una concezione simile a quella cristiana, “platonicamente” contrapposti al sensuale naturalismo della scultura di epoca classica.
Per quanto riguarda i fondamenti teologici dell’arte cristiana, dobbiamo anche ricordare che la somiglianza dell’uomo e, tenendo conto della dottrina dei logoi alla quale ho appena alluso, di ogni creatura con Dio, è soltanto “analogica” e comporta, in senso proprio, una dissomiglianza assoluta.
“A chi mi paragonate e mi assomigliate? A chi mi confrontate, quasi fossimo simili? … Sono Dio, nulla è uguale a me” (Isaia 46, 5-8). Per questo nel medioevo si riteneva preferibile l’uso di
immagini “dissimili”, “vili”, volutamente non belle: per significare tutta la distanza che separa
l’immagine e il suo archetipo ed evitare così il rischio di una confusione, che rischierebbe di essere idolatrica, tra l’una e l’altro. 3
Se queste antiche dottrine certamente non spiegano l’opera di Aldo Ferrario, che non pretende di essere arte sacra, né le sue intime motivazioni (ma è stato lui stesso a citarmi Genesi 1, 27 per giustificare la sua predilezione per la figura umana), tuttavia aiutano a comprenderla, prolungando in tutte le sue conseguenze quel paragone col romanico che essa ha così irresistibilmente suscitato nel discorso critico.

Vi è però un aspetto del lavoro di Aldo a proposito del quale non potremmo invocare né il
romanico, né qualsiasi altra arte arcaica o “primitiva”, e che anzi ne manifestano la modernità. “Non finite”, in molti casi sommariamente sbozzate, le sue sculture esibiscono e anzi ostentano la materia di cui sono fatte. Non si tratta semplicemente di statue lignee, ma di tronchi d’albero che non hanno cessato di esserlo del tutto, da cui la forma umana emerge spesso parzialmente e precariamente.
Non direi però che, come è stato affermato, Aldo sia un “materialista”. La sua è piuttosto una
riflessione sulla materia, di cui il legno (in spagnolo madera) è un simbolo, in rapporto all’atto
creatore e alla forma. Le sue sculture vivono proprio di questa dialettica tra la forma e l’informe, in particolare quelle più recenti, nelle quali dal substrato di legno grezzo, dal tronco ancora riconoscibile, emergono non soltanto l’abbozzo di una forma, ma persino parti anatomiche, fuse in bronzo (“innesti” le chiama Aldo), naturalistiche e levigate.
Torniamo alla Genesi e alla creazione dell’uomo, anzi alle creazioni dell’uomo, perché il primo
libro della Bibbia ne racconta perlomeno due. Alla creazione dell’uomo “a immagine e
somiglianza” di Dio, segue infatti la creazione dell’uomo fatto di terra. Dio non è solo il primo
artista, ma letteralmente il primo scultore: “Il Signore plasmò l’uomo con polvere del suolo”
(Genesi 2, 7). Gli antichi commentatori hanno visto in questi due racconti non due varianti dello stesso evento, ma due fasi successive della creazione. Non si tratta ancora della caduta, ma già di un abbassamento ontologico dell’uomo: all’uomo “interiore” e spirituale, per usare la terminologia di san Paolo, si sovrappone un uomo “esteriore” e materiale, che con il primo può entrare in drammatico conflitto.
Proprio in riferimento alla contrapposizione tra l’uomo interiore e l’uomo esteriore, Meister Eckhart dopo aver affermato che occorre “spogliarsi di sé stessi” per ritrovare sotto la “terra” la propria somiglianza con Dio, si serve del simbolismo della scultura (e, fortunata coincidenza, della scultura in legno):

Quando uno scultore fa una statua di legno […], non fa entrare l’immagine nel legno, ma toglie i trucioli che occultavano e coprivano l’immagine; non aggiunge nulla al legno, ma, al contrario, toglie e scava ciò che lo ricopre, leva via le scorie: allora rifulge ciò che al di sotto era nascosto.

L’immagine proviene da Plotino 5 ed è stata applicata letteralmente alla scultura da Michelangelo, il quale in un celebre sonetto indirizzato a Vittoria Colonna afferma che

Non ha l’ottimo artistista alcun concetto
ch’un marmo solo in sé non circoscriva
col suo soverchio, e solo a quello arriva,
la man, che ubbidisce all’intelletto.

Parafrasando, qualsiasi opera che un artista possa concepire è già nel marmo, circondata di materia superflua, ed è questa opera potenziale che l’artista, guidato dall’intelletto, ricava dalla materia. In questi versi il Buonarroti esprime la sua poetica della scultura “per forza di levare”, contrapposta alle arti, come la pittura o la scultura di materiali malleabili, in cui si procede per “via di porre”.
Vasari, a questo proposito, parlando nella sua Vita di Michelangelo dei “Prigioni” della tomba di Giulio II e del modo in cui sono stati scolpiti, fa il paragone con una figura che sia stata immersa in una “conca d’acqua”,

la quale acqua essendo per sua natura nella sua sommità piana e pari, alzando la detta figura a poco a poco del pari, così vengono a scoprirsi prima le parti più rilevate et a nascondersi i fondi, cioè le parti più basse della figura, tanto che nel
fine ella così viene scoperta tutta. Nel medesimo modo si debbono cavare con lo scalpello le figure de’ marmi, prima scoprendo le parti più rilevate e di mano in mano le più basse; il quale modo si vede osservato da Michelagnolo ne’ sopradetti Prigioni […].

Michelangelo letteralizza l’immagine plotininiana, ma certamente ne accoglie anche il significato simbolico. Da buon neoplatonico, molto probabilmente, come ha ipotizzato Erwin Panofsky, egli ha voluto rappresentare con i Prigioni (ovvero i prigionieri) “l’anima umana ridotta in schiavitù dalla materia” e “la battaglia ingaggiata dall’anima per sfuggire al carcere della materia”, anche se si tratta di una battaglia destinata alla sconfitta (l’anima vittoriosa, “nella sua condizione di libertà”, doveva invece essere rappresentata nella stessa tomba dalle Vittorie). 8 Questo significato è rafforzato dal fatto che i Prigioni sono, come la Pietà Rondinini, opere non finite, non del tutto liberate dalla materia che li avvince. Il che ci aiuta a collocare in una tradizione anche la dialettica tra informe e forma nelle sculture Aldo Ferrario.
Poco importerebbe se le opere non finite di Michelangelo lo fossero per motivi esterni alla volontà dell’autore, data la loro influenza sulla poetica contemporanea del non finito. Aldo però non è un seguace di Michelangelo, anche se possiamo considerarlo in dialogo con lui. Il carattere tragico del conflitto dei Prigioni michelangioleschi con la materia sembra, con un’eccezione recentissima che considereremo in conclusione, del tutto alieno alla sua opera, dove le figure emergono dal legno serenamente, senza lotta, e il non finito non è, in nessun modo, il risultato di una sconfitta.
Per tornare al passo di Eckhart citato poco fa, e a proposito di non finito, potremmo notare che ciò che caratterizza l’opera di Aldo Ferrario è precisamente il fatto che egli non “toglie i trucioli”, né “leva le scorie” del tutto. Ma, ripeto, questo non è indizio di materialismo. In realtà l’attenzione che Aldo rivolge alla materia, non è tesa a rivendicare per essa un primato metafisico, come accade nelle filosofie materialiste. Egli piuttosto problematicizza il rapporto tra materia e forma, ne fa oggetto di meditazione.
Ora, la materia, “terra informe e vuota” o “abisso delle acque”, creata “in principio” da Dio (Genesi 1, 1-2) affinché potesse essere il supporto dell’opera dei sei giorni, quando non si oppone allo spirito, quando non è ostaggio delle forze del caos e della dissoluzione, non è in sé cattiva. Così il tronco-materia delle sculture di Aldo non è un carcere al quale le forme vengono violentemente strappate; piuttosto lo si direbbe una matrice che prima protegge e poi “dà alla luce” le forme, che da essa emergono come le creature, nominate da Dio, prendono corpo a partire dalle acque all’inizio della Genesi.

Da questo punto di vista, vi è analogia tra la materia e l’anima umile (humilis, viene da humus,
“terra”) che accetta di essere formata da Dio, di generare secondo la sua Parola (Luca 1, 38: “Sia
fatto a me secondo la tua parola”), e la capacità metamorfica della materia, ben intesa, non deriva, come nel pensiero materialista, da un suo autonomo potere creatore, ma è il riflesso della libertà dello Spirito che le dà forma.
Vi è anche, insomma, un’umiltà della materia, che possiamo considerare il fulcro della filosofia artistica di Aldo Ferrario.
John Ruskin ha notato che gli artisti medievali, a differenza di quelli del Rinascimento, che hanno ricercato un’orgogliosa perfezione, inserivano volutamente delle imperfezioni nelle loro opere per ricordare umilmente la condizione decaduta dell’uomo. 9 Con la stessa umiltà – mi diceva Aldo anni fa – gli stessi artisti rifinivano alla perfezione dettagli di sculture collocate in luoghi dell’edificio sacro inaccessibili allo sguardo, perché “Dio vede tutto”. (Quella conversazione mi è tornata alla mente a proposito del “Gruppo policromo”, che riunisce più figure, una delle quali può essere vista soltanto dall’alto e risulta dunque invisibile dai punti di vista che l’osservatore può normalmente assumere .)

Se l’arte di Aldo non è arte sacra, dobbiamo tuttavia riconoscere che l’ispirazione religiosa le è
essenziale. In questa esposizione non mancano neppure le opere di esplicito soggetto religioso, gli “Uomini con la Sindone”, per esempio, che nelle intenzioni di Aldo raffigurano gli evangelisti. Il soggetto è, rispetto alla tradizione iconografica, del tutto inedito. La Sindone, o le sue varianti leggendarie come la Veronica latina e il Mandylion siro-bizantino, non appaiono mai in nell’iconografia in mano a un evangelista. La Veronica è tenuta, appunto, da Santa Veronica; il Mandylion è in genere raffigurato da solo. Ma seppure non tradizionale, il tema dell’Evangelista con Sindone possiede una sua coerenza, anche teologica.
Nei Vangeli infatti le “bende” e il “sudario per il volto” del Signore, vengono ritrovati da Pietro e
dall’Evangelista Giovanni nel sepolcro vuoto (Luca 24, 12; Giovanni 20, 5-7) e le ricostruzioni
ipotetiche della storia del sacro lenzuolo di Torino considerano che esso sia stato conservato dagli apostoli.
A ben vedere, la Sindone è una prova della resurrezione, perché se il corpo di Gesù avesse “visto la corruzione” noi oggi non la possederemmo. La predicazione di Pietro (Atti 2, 24 ss) inizia proprio con la costatazione che le parole del salmista “non permetterai che il tuo santo veda la corruzione” (Salmo 16 [15], 10) non possono applicarsi a David, autore materiale del testo, ma sono realizzate alla lettera dal Cristo. Gli Evangelisti sono di solito raffigurati con il libro del Vangelo che predicano, ma da questo punto di vista non è la Sindone, oltre che l’archetipo di ogni raffigurazione del Cristo, un vero e proprio Vangelo in icona?
Aldo mi ha fatto notare l’analogia formale tra queste sindoni e i lunghi capelli della “Maddalena” e della “Eva”. A proposito di quelli di Eva ha aggiunto che possono essere visti come una cascata d’acqua, in rapporto al significato “vitale” di questo elemento e all’etimologia del nome di Eva, “madre di tutti i viventi”. Questo nodo simbolico ci riconduce al tema della materia, di cui, come abbiamo visto, l’acqua è con la terra uno dei simboli tradizionali. Nella Genesi, “fecondata” dalla Parola di Dio e formata dallo Spirito che “aleggiava sulle acque”, “genera” le forme ed è dunque simbolicamente, in analogia con le acque amniotiche, femminile e materna. Il battesimo, attraverso il quale la Chiesa genera i figli di Dio, si ricollega a questo simbolismo.
Né possiamo dimenticare di ricordare in questo contesto Maria Vergine, “nuova Eva”, ma da un altro punto di vista, in analogia con la terra da cui è stato tratto il “primo Adamo”, “terra vergine” da cui il Cristo ha assunto la carne, la natura umana (la “nostra terra” che “ha dato il suo frutto”, secondo le parole dei Salmi 67[66], 7 e 85[84], 13), simbolo della Chiesa ma anche dell’anima umile che accetta di essere formata a immagine di Dio. Come dice un distico di Angelus Silesius:

Se il cuore Davanti a Dio è cera molle e pura,
Uomo, lo Spirito di Dio vi stampa l’immagine di Gesù.

Certamente anche il simbolismo “malefico” della materia “carcere dell’anima”, che troviamo in Michelangelo, è legittimo, soprattutto in ambito ascetico. Ma se volessimo dispiegare tutto il suo simbolismo “benefico” secondo la dottrina patristica e medievale della pluralità dei sensi della Scrittura, dovremmo dire che la terra e l’acqua significano, secondo il senso letterale, appunto la materia da cui Dio ha fatto il mondo; secondo il senso allegorico Maria Vergine, la carne del Cristo; secondo il senso “morale”, l’anima umana, capace come Maria di generare il Figlio di Dio, di accoglierne la forma.
I lunghi capelli di Maria Maddalena – derivati nell’iconografia da quelli di cui, soli, era vestita la
monaca del deserto Maria Egiziaca, altra famosa santa-prostituta – anche se nell’arte post-medievale hanno potuto acquistare un accento erotico, hanno in primo luogo un significato penitenziale, di umiltà. Aldo peraltro pensava al passo evangelico in cui Maria di Betania, identificata nell’Occidente latino con la Maddalena, se ne serve per asciugare i piedi di Gesù dopo averli profumati di unguento (Giovanni 12, 3), un gesto in cui all’umiltà è unito l’amore, analogo, per tornare alla Sindone, a quello di Veronica che asciuga con il suo panno il volto del Cristo sofferente.
A questo proposito si può ricordare che anche il panno della Veronica ha potuto significare
l’impressione del Volto di Dio nel cuore umano. Un vecchio testo della Via Crucis recita: “Si
considera in questa VI stazione come Gesù lasciò impressa l’immagine del suo volto nel pannolino della Veronica che si inoltrò senza timore tra le insolenti turbe affine di rasciugarglielo, e con ciò ne insegna il dovere di sprezzare tutti i rispetti umani, se vogliamo avere il suo ritratto scolpito nel nostro cuore.” Anche Paul Claudel accenna nel suo Chemin de la Croix (1911) accenna a “cette Face de Dieu [che il cristiano ha] en son Coeur”. Tolto il superfluo, al di là dell’uomo fatto di terra, la somiglianza con Dio risplende nell’anima umana.

Accanto a sculture di soggetto religioso, ve ne sono in questa esposizione altre che alludono alla mitologia e alla filosofia, due ambiti contigui a quello della religione. Contiguità non vuol dire però sovrapposizione, e forse, per quanto riguarda le opere mitologiche, nel contesto della lettura che sto svolgendo, possiamo limitarci a considerare la loro solidarietà con le opere di impronta “romanica” nel rinviare a un “sacro arcaico”.
Quanto ai “Filosofi”, vorrei far notare ad Aldo che quello verde, con la lunga barba, corrisponde
notevolmente all’iconografia tradizionale di Platone, il cui magistero ho associato in questi appunti a quello degli autori cristiani.
Il discorso si complica con il “Filosofo schifato”, la più recente scultura di Aldo, che sembra
contraddire le considerazioni appena svolte sul carattere “sereno” della dialettica forma-informe nella sua opera. Si tratta sì di una di quelle sculture, con un “innesto” nel legno grezzo di bronzo rifinito, nelle quali la dialettica forma-informe si fa più evidente. Ma, questa volta, il busto formato che emerge dalla materia (un autoritratto?) è contratto in una smorfia di disgusto e, aggiungerei, di dolore. È il disgusto, certamente non privo di buone ragioni, dell’artista-filosofo di fronte a “questo mondo” (il mondo sotto il dominio di Satana, la materia nel suo aspetto “malefico”, da non confondersi con la creazione dichiarata “cosa buona” da Dio). Ma il volto che lo esprime è molto diverso da quello “impassibile”, ma luminoso e amorevole, del Cristo dei dolori e dell’immagine sindonica, e ricorda piuttosto lo sforzo titanico, sul quale pesa l’ombra della sconfitta, dei Prigioni michelangioleschi. Uno scatto d’ira è certo comprensibile e in molti casi anche opportuno. Spero però che il “Filosofo schifato” non inauguri un nuovo “modo” nell’arte fino ad oggi serena e fuori dal tempo di Aldo Ferrario.